«Solo la narrazione consente di costruirsi un’identità e di trovare un posto nella propria cultura. Le scuole devono coltivare la capacità narrativa, svilupparla, smettere di darla per scontata.»
Jerome Bruner, La cultura dell’educazione
Il valore formativo della narrazione è da sempre riconosciuto importante dal punto di vista culturale come strumento di comunicazione, da una generazione all’altra, dei fatti accaduti «quando tu non c’eri o eri troppo piccola». Ora sappiamo la grande valenza che la narrazione ha soprattutto nello sviluppo cognitivo, come capacità di narrare la nostra vita agli altri e perciò a noi stessi. Come insegnante di scuola primaria ho capito che imparare a narrare chi pensiamo di essere, come atto antropologico per «costruirsi un’identità e trovare un posto nella propria cultura», richiede un’acquisizione precedente, obbligatoria: la capacità di ascoltare.
Forse perché ho incontrato tanti libri “amici” tra i quali, oltre quelli di Bruner, il piccolo saggio di Daniel Pennac Come un romanzo e, forse anche perché ho avuto un’infanzia fortunata, abitata da molti adulti a cui piaceva molto raccontare storie e ne sapevano tante, all’inizio della mia carriera, durante le mie prime supplenze di pochi giorni alla scuola primaria, non ho mai avuto timore a dedicare la maggior parte del tempo in classe alla lettura ad alta voce di libri avvincenti per i bambini e le bambine che mi stavano di fronte. Il primo giorno arrivavo sempre con più di un volume, sceglievo il più adatto e iniziavo a leggerlo. Il ghiaccio tra noi si scioglieva, il silenzio e la concentrazione via via aumentavano, creando un ascolto attento e un senso di fiducia reciproco. Il giorno successivo la nostra lettura continuava in cerchio, qualche bambino vinceva la timidezza e chiedeva di poter leggere al posto mio e anche i bulletti più invincibili cedevano all’ascolto e a volte per voglia di protagonismo diventavano per un po’ i lettori del gruppo. Sceglievano libri brevi per poter entrare nel cuore del racconto nell’arco di poco tempo e introdurre momenti di dibattito. Il confronto più ricco era quello che seguiva alla fine del libro o della mia supplenza. Era il momento in cui, se non eravamo riusciti a finirlo, regalavo il libro alla classe e la reazione dei bambini mi restituiva la sicurezza di avere costruito un’occasione di buona relazione tra noi e tra loro, facendomi superare il timore di non aver svolto il programma per due o tre giorni.
Oggi il libro Rami di uno stesso albero di Antonella Bottazzi mi ha offerto un’occasione di crescita sull’importanza della capacità narrativa. Franco Lorenzoni afferma nell’introduzione: «Non si può affrontare la fatica del conoscere se non si sente che il proprio pensiero è degno di essere accolto e ascoltato.» Una sfida molto più articolata e complessa della lettura ad alta voce, che sento il dovere di accogliere come adulta.
Dall’esperienza del gruppo di insegnanti ed educatori di Modena, di cui l’autrice riferisce nel libro,emerge una metodologia che consente di far vivere e durare un ascolto attento, che garantisce il diritto di parola anche a chi possiede meno strumenti linguistici o culturali, ad esempio gli stranieri, o i disabili. Il cerchio narrativo: silenzio e ascolto. Un luogo protetto, che nasce su un patto esplicito: «nessun giudizio da parte dell’insegnante e dei compagni, ascolto reciproco e sincerità, in primo luogo con noi stessi.» Ognuno narra quello che vuole, al di là della lingua che parla e con cui riesce ad esprimersi, se sia o no in grado di comunicare a parole. E ognuno ascolta assorto e con rispetto. Un cammino non comune.
D.B.