Gli stereotipi? È tempo di riflettere

Annalisa Busato ci ha regalato un bellissimo libro della collana RicercAzione di MCE, che ogni giorno, in tempi di pandemia da COVID diventa più prezioso per chi vive, lavora, incontra adolescenti.

Perché sentirsi belli sentirsi brutti è un po’ come sentirsi vivi, allegri e pieni di speranza o sentirsi soli, isolati, dimenticati, il tutto con le emozioni a mille, senza magari saperle riconoscere e definire e soprattutto senza pensare che sono di tutti e non solo le nostre.

Perché sono passata dagli adolescenti alle nostre emozioni? Perché forse in questo periodo siamo davvero tutti sulla stessa barca: grandi e piccini, chi vive in città e chi vive in campagna, biondi o bruni, grassi o magri … per usare stereotipi comuni e tutti alle prese con le tante emozioni che questa situazione sta scatenando.

E allora com’è sentirsi belli e brutti in questo periodo?  È cambiato il modo di definire la bellezza e la bruttezza? Ma soprattutto cosa significa bellezza e bruttezza oggi per gli adolescenti?

Vogliamo parlare per esempio di capelli e della loro bellezza?  Chiacchierando sulle emozioni e il corpo con ragazze e ragazzi tra i 12 e i 14 anni, figli e nipoti di amici, durante i mesi di novembre e dicembre 2020 a Milano, in quartiere e all’aperto, per rispettare la zona rossa, ho scoperto, ascoltandoli con attenzione e umiltà, che i capelli hanno per loro un’importanza enorme. Forse per le ragazze era scontato, ma per i ragazzi per me, è stata una sorpresa. Ci tengono tantissimo e ne parlano tra loro scambiandosi informazioni su shampoo e balsami, meglio se naturali, e se interpellati snocciolano saggi consigli. Insomma, capelli belli e ben curati sono un loro punto di forza insieme a cos’altro? Al loro sguardo, per esempio, che non sempre sappiamo cogliere.

Camminando e chiacchierando con loro siamo arrivati a parlare di corpo, di teatro, di ballo, di skate: per loro momenti di bellezza, di libertà, di espressione di sé, “senza la pressione dei compiti e dei voti” (parole testuali), in momenti e situazioni in cui le differenze, tutte le differenze, di genere, di etnia, di tradizioni, si abbattono in una dimensione di gioco e di divertimento.

Così mi hanno raccontato la loro idea di bellezza, il loro stare bene. Certo sono solo alcuni ragazzi che abitano a Milano, non sono un campione, ma per una volta non erano una statistica, un articolo di giornale, ma persone con cui ho parlato, e che, dopo la ritrosia iniziale di fronte ad una “nonna” che faceva loro domande sulla bellezza sul corpo e sulle  emozioni, sono diventati tutti, e dico tutti, un fiume di parole, felici di essere ascoltati, e non giudicati, sui capelli, sulla Ferragni, sugli skate, i videogiochi, sui colori delle cover del telefonino, sulla paura del buio e sulla bellezza del Duomo di Milano, sulla bellezza del ballare tutti insieme in coreografie, seguendo i tutorial, e sui biscotti brutti ma buoni che hanno imparato a cucinare durante la lezione “alternativa” da una compagna ucraina.

Gli stereotipi? È tempo di riflettere.

8 aprile 2021, Concetta Capacchione

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Narrare per conoscere il mondo

«Solo la narrazione consente di costruirsi un’identità e di trovare un posto nella propria cultura. Le scuole devono coltivare la capacità narrativa, svilupparla, smettere di darla per scontata.»

Jerome Bruner, La cultura dell’educazione

Il valore formativo della narrazione è da sempre riconosciuto importante dal punto di vista culturale come strumento di comunicazione, da una generazione all’altra, dei fatti accaduti «quando tu non c’eri o eri troppo piccola». Ora sappiamo la grande valenza che la narrazione ha soprattutto nello sviluppo cognitivo, come capacità di narrare la nostra vita agli altri e perciò a noi stessi. Come insegnante di scuola primaria ho capito che imparare a narrare chi pensiamo di essere, come atto antropologico per «costruirsi un’identità e trovare un posto nella propria cultura», richiede un’acquisizione precedente, obbligatoria: la capacità di ascoltare.

Forse perché ho incontrato tanti libri “amici” tra i quali, oltre quelli di Bruner, il piccolo saggio di Daniel Pennac Come un romanzo e, forse anche perché ho  avuto un’infanzia  fortunata, abitata da molti adulti a cui piaceva molto raccontare storie e ne sapevano tante, all’inizio della mia carriera, durante le mie prime supplenze di pochi giorni alla scuola primaria, non ho mai avuto timore a  dedicare la maggior parte del tempo in classe alla lettura ad alta voce di libri avvincenti per i bambini e le bambine che mi stavano di fronte. Il primo giorno arrivavo sempre con più di un volume, sceglievo il più adatto e iniziavo a leggerlo. Il ghiaccio tra noi si scioglieva, il silenzio e la concentrazione via via aumentavano, creando un ascolto attento e un senso di fiducia reciproco. Il giorno successivo la nostra lettura continuava in cerchio, qualche bambino vinceva la timidezza e chiedeva di poter leggere al posto mio e anche i bulletti più invincibili cedevano all’ascolto e a volte per voglia di protagonismo diventavano per un po’ i lettori del gruppo. Sceglievano libri brevi per poter entrare nel cuore del racconto nell’arco di poco tempo e introdurre momenti di dibattito. Il confronto più ricco era quello che seguiva alla fine del libro o della mia supplenza. Era il momento in cui, se non eravamo riusciti a finirlo, regalavo il libro alla classe e la reazione dei bambini mi restituiva la sicurezza di avere costruito un’occasione di buona relazione tra noi e tra loro, facendomi superare il timore di non aver svolto il programma per due o tre giorni.

Oggi il libro Rami di uno stesso albero di Antonella Bottazzi mi ha offerto un’occasione di crescita sull’importanza della capacità narrativa.  Franco Lorenzoni afferma nell’introduzione: «Non si può affrontare la fatica del conoscere se non si sente che il proprio pensiero è degno di essere accolto e ascoltato.» Una sfida molto più articolata e complessa della lettura ad alta voce, che sento il dovere di accogliere come adulta.

Dall’esperienza del gruppo di insegnanti ed educatori di Modena, di cui l’autrice riferisce nel libro,emerge una metodologia che consente di far vivere e durare un ascolto attento, che garantisce il diritto di parola anche a chi possiede meno strumenti linguistici o culturali, ad esempio gli stranieri, o i disabili. Il cerchio narrativo: silenzio e ascolto. Un luogo protetto, che nasce su un patto esplicito: «nessun giudizio da parte dell’insegnante e dei compagni, ascolto reciproco e sincerità, in primo luogo con noi stessi.»  Ognuno narra quello che vuole, al di là della lingua che parla e con cui  riesce ad esprimersi, se sia  o no in grado di comunicare a parole. E ognuno ascolta assorto e con rispetto. Un cammino non comune.

D.B.

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Pandemia e identità

In tempo di Covid – tempo di distanziamento fisico, tempo di divieti e di quasi assenza del corpo – un libro che ha per titolo Sentirsi belli sentirsi brutti attira l’attenzione, o quanto meno incuriosisce.

Rivolta, in primis, a educatori e a quanti hanno a che fare con adolescenti, questa pubblicazione si rivela come una sorta di magico “prontuario”, ricco di proposte simpatiche e praticabili, che ritengo efficaci se costruite insieme ai ragazzi, in dialogo sincero con loro.

Nel nostro tempo, in cui tutto sembra giocarsi perentoriamente sulla immagine di sé, la preadolescenza e l’adolescenza – età di grandi dubbi e incertezze, contraddizioni ed entusiasmi, bellezza e tristezza – sono un periodo importante della vita, e come tale deve essere considerato, valorizzando tutte le occasioni di crescita reale, solidarietà e progettazione con i pari, confronto costruttivo con gli adulti.

Sono i motivi per cui questo libriccino è apprezzabile: presenta occasioni per riconoscere gli stereotipi, rafforzare l’autostima nella presa di coscienza delle emozioni, delle differenze di genere, della ricchezza e delle potenzialità che ciascuno ha in sé. Le attività proposte sono molto semplici, ad esempio costruire una carta di identità su come immaginare se stessi tra ven’anni: «vorrei essere… se fossi…»; discussioni su selfie e fotoritocchi, identità e profili facebook; diversità e come e perché provare a «mettersi nei panni dell’altro»…

Credo intelligente il modo in cui l’autrice fa proposte, invitando l’insegnante/educatore e i ragazzi stessi a tracciare un filo conduttore tra i temi e le attività, mettendo a fuoco le problematiche che più li riguardano.

Immagino, a seguire, un secondo libriccino, scritto, appunto “in diretta” da ragazzi e ragazze che hanno registrato le loro esperienze e le propongono ai coetanei.

Luisa Rossi

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Come mi vedo? Come mi sento?

Dato l’ormai diffusissimo utilizzo dello smartphone gli adolescenti usano molto le immagini fotografiche, ritratti singoli, di gruppo, selfie; e fanno molto uso delle applicazioni per migliorare o modificare i tratti del volto. Seguono dei criteri estetici “nuovi”, ma più che mai omologati. Esistono canoni di bellezza decisamente stereotipati nei social, nella pubblicità, in televisione e questi vengono perseguiti anche a costo di notevole impegno di tempo e di sacrifici.

Le applicazioni che modificano i tratti del viso sono sostanzialmente programmi di fotoritocco e sovrappongono in modo meccanico un modello, uno stile estetico, al volto reale considerato …insoddisfacente. Rendono tutte le facce più colorate, più lisce, più toniche ma riducono individualità, espressione e vivacità; umiliano addirittura la vivezza dell’espressione personale (che nell’identità è forza) e sviliscono la spontaneità. Occorrerebbe invece dare valore alla specificità e all’unicità di ciascun volto, di ciascun corpo e di ciascuna personalità.

Nel libro “Sentirsi belli, sentirsi brutti” emerge la necessità di trasmettere questo messaggio: “Non lottare per cambiare a tutti i costi, parlane, reagisci, crea una lista delle cose positive che vedi in te, cambia quello che vuoi cambiare ma accetta i complimenti che ti vengono fatti, non lasciarti criticare passivamente, rispondi alle osservazioni e soprattutto non cominciare tu stesso con l’autodenigrarti. E sappi comunque che gli altri sono insicuri quanto te”.

Occorre dialogare con i ragazzi, metterli in dialogo tra loro, e la scuola è un luogo d’incontro importante, ideale per avviare questo lavoro.

Ritengo che questo e-book offra alcuni esercizi, annotazioni e proposte di animazione didattica che hanno al centro in un preciso assunto, ovviamente supportato da studi e ricerche: la buona convivenza con sé stessi e con gli altri si può insegnare… e si può imparare.

L’autrice partendo da alcuni riferimenti teorici, vuole fornire una traccia, un canovaccio di percorso, o meglio, suggerimenti per la realizzazione di percorsi diversificati scelti dall’insegnante in modo che siano adatti ad un certo gruppo-classe.

Questo non è un libro “concluso”, ma un laboratorio aperto a commenti e nuovi spunti per continuare a lavorare insieme.

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Le gocce di Giancarlo 1.

Nel libro Il testo libero di matematica di Paul Le Bohec la matematica non è vista come un sapere cui ci si può solo adeguare, ma è considerata nella sua funzione educativa, come contributo alla formazione del pensiero. «A fianco di un itinerario didattico, rigidamente seguito da generazioni, potrebbe configurarsi, svolgersi, affermarsi un percorso euristico che corrisponda meglio alla natura dei bambini» (P. Le Bohec).

Nel testo viene proposto il metodo naturale il cui punto di partenza e le invarianti sono la messa in gioco di tutto l’essere umano, la globalità della persona, il rispetto della cultura del bambino, l’ascolto, la valorizzazione della creatività, le relazioni nel gruppo, un’impostazione coerente del rapporto fra i soggetti, con le loro esigenze di apprendimento e l’organizzazione didattica, in cui le prime costituiscono le condizioni della seconda e non viceversa.

L’avvio delle sedute di matematica: «All’inizio io mi preoccupo molto poco di questa disciplina, io ho cura soprattutto di sottolineare il comportamento dell’essere umano nell’apprendimento.»

Le creazioni: di che natura sono? quale può esserne la fonte? All’inizio, «il desiderio di esprimersi profondamente e di impadronirsi di tutte le possibilità offerte da questo linguaggio.[….] Dalla matematica si può sfociare nella poesia, nella psicologia, nella coreografia, nella politica e in   mille cose ancora. E reciprocamente.»

I fenomeni di gruppo: «Fa parte del nostro lavoro scoprire ciò che avviene in classe»: chi parla con il vicino, chi protesta perché vede preferita la soluzione di un altro, chi si serve di un altro per esprimere una propria idea, chi cerca un alibi o un pretesto, chi si allea. «Dall’osservazione dei diversi comportamenti emergono indicazioni fondamentali per l’insegnante». «Il gruppo gioca un ruolo considerevole. Anzitutto può essere un luogo di parola, un luogo di accoglienza, un luogo dove esprimere liberamente delle ipotesi, senza temere giudizi svalorizzanti.»

La complessità: «La mente umana di fronte al caos che dà incertezza tenta di trovare delle strutture che le permettano di dominarlo almeno in parte […] Una classe è un complesso di individui complessi. Essi sono talvolta così differenti che sembra impossibile farli lavorare insieme. l’insegnante deve prendere in carico la complessità delle situazioni e delle persone.»

D’altra parte, segnala Le Bohec, è Freinet che ci ha immesso nella complessità, avviato al superamento delle eccessive semplificazioni. E troviamo conferme nelle teorie di Popper e di Bachelard.

Il metodo naturale di apprendimento si basa su sei  elementi: -la pratica personale -i fenomeni di gruppo -i punti di riferimento personali e collettivi nelle costruzioni matematiche -le specificità fisiologiche di ciascuno -le particolarità psicologiche -le circostanze -le varianti.

E poi: molta matematica; la matematica intuitiva, la matematizzazione delle situazioni, il gioco matematico, il tentativo sperimentale, l’attribuzione di significato alle creazioni, la simbolizzazione, la pratica personale elemento indispensabile nella formazione docente,…

Le Bohec ci affida un interrogativo: «Quale avvenire per questa idea di metodo naturale? Sta, dice lui, ai maestri praticiens cercare, esplorare, sperimentare.»

G.C.

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Gli eBook aiutano

La collana RicercAzione offre a noi insegnanti un supporto importante non solo per le tre sezioni che identificano chiaramente quali obiettivi didattici ed educativi ci permettono di raggiungere, ma perché fa superare la solitudine in cui spesso ci sentiamo relegate/i. Ci apre la possibilità di un confronto tra colleghi, sia sulle riflessioni teoriche e metodologiche, che mostrando in modo dettagliato le azioni che ne sono derivate attraverso la documentazione di esperienze realizzate in alcune classi. 

Altri punti a favore della collana, e non da sottovalutare, sono il formato e il prezzo delle pubblicazioni. Il formato ci consente di scaricarli agilmente e di averli a disposizione con rapidità, appena li scopri, con un costo abbordabile.

Speriamo che questo ci consenta di crescere cooperando! 

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Il mondo, la scienza e i bambini

La lettura del libro “Chi vince al tiro alla fune” ci conduce ad un approccio all’educazione scientifica molto diverso da quello che si pratica ancora in molte scuole sia dell’infanzia che primarie. Documentare conversazioni e azioni con i bambini fa parte di una sperimentazione didattica su alcuni argomenti di scienze che col tempo è diventata pratica usuale nelle classi degli insegnanti che hanno seguito il percorso formativo proposto da anni dalla professoressa Maria Arcà. Mettere in pratica questa metodologia di lavoro presuppone che l’insegnante dedichi tempo a studiare e a progettare prima di presentare in classe uno qualsiasi dei temi: solo così può elaborare una rete di concetti e di relazioni per indirizzare e guidare il lavoro.

Ecco una pagina significativa tratta da uno dei paragrafi introduttivi.

Il ruolo di un insegnante che vuole lavorare sulle scienze dovrebbe essere principalmente quello di:

a) sollecitatore di problemi (provocatore)
b) controllore di coerenza (una specie di interlocutore un po’ tonto e pedante che prende sempre alla lettera i discorsi, li fa a pezzetti e controlla se filano o se ci sono delle contraddizioni; e questo indipendentemente dalla correttezza del contenuto).

Ecco un esempio, conversazione tra insegnante e bambini:

Ins: Chi fa più forza, Luca che deve reggere un sacco di patate o il banco che regge due bambini seduti sopra? (Provocatore).
Sara: Luca, non lo vedi che suda?
Luca: No, il banco, perché regge di più.
Debora: Il banco non fa forza, Luca.
Sara: Luca deve fare sempre più forza, il banco deve fare sempre la stessa forza.
Ins: Se Luca deve fare sempre più forza vuol dire che allora le patate pesano sempre di più? (Controllore di coerenza).
Sara: No. Ma per Luca sì, perché si stanca.
Luca : Ma la forza non la fanno solo le cose che si stancano.
Mass: Mio padre non si stanca mai.
Sara: Dipende, se deve spingere la macchina…
Luca: La metti in discesa, così va da sola.
Ins: Ma allora, così, tuo padre non la spinge affatto. Grazie che non si stanca.

Se le discussioni diventano lunghe si possono interrompere, senza spegnere l’interesse dei discorsi.
È chiaro che oltre a sollecitare problemi e a controllare coerenze, l’insegnante deve svolgere una funzione di guida, sistematica ed intenzionale.
Più che fare una lezione si lavorerà in classe per proporre, accanto a quelle dei bambini, nuove coerenze che possono dar conto meglio dei fatti che si sono studiati.

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